Con la recente ordinanza n. 32473 dell’08.11.2021, la Suprema Corte di Cassazione, a conferma del proprio preesistente orientamento, ha ribadito che non è dovuta dall’INAIL alcuna rendita da infortunio nei confronti del lavoratore che resti coinvolto in un sinistro verificatosi durante la c.d. “pausa caffè”, a prescindere dal fatto che l’evento si sia verificato nel tempo della prestazione lavorativa.

Tale ordinanza ha trovato ampio risalto sulla stampa straniera, che ha sottolineato come i lavoratori italiani non avrebbero il diritto di effettuare la “pausa caffè”. In verità, la questione è assai più complessa.

L’ordinanza in commento pone fine ad un giudizio intentato da una lavoratrice, impiegata giudiziaria presso la Procura di Firenze, che aveva esposto di essere scivolata, procurandosi un trauma al polso, lungo il tragitto che stava percorrendo, a piedi, al rientro da un bar per rientrare, dopo una breve pausa, nella sede di lavoro. Sostenendo di essere rimasta inabile al lavoro a seguito dell’incidente, la lavoratrice aveva convenuto in giudizio l’INAIL, chiedendo al Giudice di accertare il verificarsi dell’evento “in occasione di lavoro” e, conseguentemente, di condannare l’Istituto al pagamento in suo favore delle relative indennità e rendite.

Diversamente dal Tribunale e dalla Corte d’Appello (che, nei primi due gradi di giudizio, avevano accolto la richiesta di risarcimento), i Giudici di legittimità, nell’ordinanza sopra richiamata, hanno anzitutto rilevato che il Testo unico sull’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (D.P.R. 1124/1965) definisce l’infortunio sul lavoro come sinistro che si è verificato “per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro”. Proprio attraverso tale locuzione si esprime, secondo la costante giurisprudenza, il principio per cui l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio legato alla prestazione lavorativa da nesso di causalità, nel senso che il rischio indennizzabile deve essere insito nell’attività lavorativa o comunque ad essa collegato.

Calando tali principi nella fattispecie concreta, la Corte di Cassazione ha concluso nel senso che nella scelta della lavoratrice di uscire dai locali della Procura e recarsi al bar a prendere un caffè, per sua propria volontà e non in dipendenza diretta dell’attività lavorativa, è ravvisabile un rischio non già semplicemente “improprio”, bensì addirittura “elettivo”, causato cioè da una scelta volontaria e personale della lavoratrice. Trattasi dunque, secondo la Corte, di un rischio volutamente creato ed affrontato, cui peraltro la lavoratrice medesima era esposta al pari di tutti gli altri cittadini, a prescindere cioè dall’esplicazione dell’attività lavorativa. Un rischio, inoltre, ricollegabile ad un bisogno di per sé non improcrastinabile né impellente.

Del tutto irrilevante, al riguardo, risulta essere ad avviso degli Ermellini la tolleranza espressa dal datore di lavoro in merito all’abitudine della lavoratrice di recarsi fuori dagli uffici per la pausa caffè: secondo la Corte, infatti, la definizione normativa di evento avvenuto “in occasione di lavoro” è oggettiva e non è suscettibile di estensione per effetto dell’accordo intervenuto tra le parti.

Pertanto, venuta meno la possibilità di affermare che la caduta sia avvenuta “in occasione di lavoro”, la Corte ha escluso ogni forma di indennizzo nei confronti della lavoratrice.

Per ogni eventuale approfondimento della questione restiamo, come sempre, a disposizione.

Avv. Andrea Colorio e Avv. Julian Daniel